Andrea de Carlo - Tecniche di seduzione.pdf

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Andrea De Carlo
TECNICHE DI SEDUZIONE
Parte prima
Tecniche di avvicinamento
Nel novembre del Novanta lavoravo nella redazione di Prospettiva, con un contratto da praticante perchè non avevo ancora dato l'esame di
giornalista.
Gli uffici erano al secondo piano di un enorme palazzo di vetro e cemento, adagiato in un'isola di prati stagnanti alla periferia est di Milano,
tra quartieri satellite e capannoni industriali e depositi di camion e svincoli e superstrade piene di traffico da e per la città . La disposizione interna
era a pianta aperta, così che tutti erano sotto gli occhi di tutti in ogni momento della giornata: teste e busti e braccia in movimento tra barricate di
armadietti metallici e paraventi di compensato. L'aria era condizionata, filtrata e riciclata a circuito chiuso; le finestre sigillate. Sul pavimento c'era
una moquette sintetica che si caricava di elettricità con ogni sfregamento di piedi, e produceva piccole scosse al minimo contatto di mani. La luce era
al neon, bianca e implacabile: nei rari momenti di silenzio, durante la pausa per il pranzo o la sera quando quasi tutti se n'erano andati, si sentiva lo
sfrigolio di migliaia di tubi di gas sul soffitto basso, appena mascherati da una grigliatura metallica. Per il resto del tempo c'era un rumore di fondo da
alveare elettronico, fatto di ticchettio di tastiere e ronzio di monitor e trilli smorzati di telefoni, voci sovrapposte e incrociate, semimormorate in
commenti personali, bisbigliate in scambi di informazioni, scandite in improvvise richieste perentorie.
A metà mattina il caporedattore Tevigati è passato vicino alla mia scrivania, e nel suo solito modo sfuggente mi ha detto: «Roberto Bata,
potresti venire un attimo da me?»
Stavo lavorando a un collage di interviste telefoniche sul declino dei seni grossi; gli ho risposto: «Tra cinque minuti.»
Solo pochi mesi prima mi aveva fatto mettere insieme un servizio del tutto simile dove si sosteneva che le forme opulente dominavano
ovunque, con un giro del tutto simile di opinioni di personaggi della cultura e dello spettacolo interpellati a conferma, una selezione del tutto simile
di famose donne nostrane e americane citate a esempio.
A stare lì dentro il mondo intero sembrava fatto di cicli incredibilmente ravvicinati, dove ragioni e comportamenti e immaginazioni e opere e
valori e istinti si inabissavano e riemergevano per poi riinabissarsi senza ragione apparente. Quasi ogni settimana c'erano nuovi tenui sintomi da
mettere in risalto e generalizzare fino a farli sembrare una tendenza destinata a travolgere tutto; i nostri archivi erano pieni di fotografie e nomi e
numeri di telefono in grado di confermare la più debole delle deduzioni. Tre quarti del mio tempo lo passavo a cercare di mettermi in contatto con
sociologi e attori e politici e vallette televisive e stilisti e proprietarie di salotti e politici di primo o secondo piano, per avere un'opinione volante
sull'Aids o sui giovani manager o sulle minigonne o sul sesso in automobile o sulla fame nel Terzo Mondo. Era un lavoro a formula, così
standardizzato e automatico che un computer avrebbe potuto farlo altrettanto bene, senza bisogno di programmi complicati. Non erano passati
neanche tre minuti che una redattrice di nome Germietti è venuta a picchiettare le nocche sulla mia scrivania e fare cenno verso la postazione di
Tevigati, e dire: «Guarda che ti vuole subito.»
Così ho lasciato il mio monitor e sono andato a zig zag tra le barricate di armadietti e i pannelli e le scrivanie. A un osservatore esterno forse la
redazione poteva anche sembrare un gruppo febbrile di amici che insieme facevano un giornale, ma al di là del fatto che eravamo quasi tutti
abbastanza giovani e ci davamo del tu e ci vestivamo nello stesso modo c'era una gerarchia definita quanto in posti molto più formali, con codici di
comportamento e ordini di beccata, diritti e gratificazioni che crescevano di grado in grado. Per esempio, la scrivania del caporedattore Tevigati era
di fianco alla parete vetrata, illuminata di luce naturale e protetta alle spalle da una paretina mobile con attaccate fotografie e cartoline e biglietti
personali. Non era molto, ma noi redattori semplici non avevamo neanche quello, a ripararci nello spazio invaso.
Tevigati mi ha guardato dal basso in alto, ha fatto cenno di sedermi. Parlava al telefono e prendeva appunti su un blocchetto e controllava lo
schermo del monitor e guardava fuori dalla vetrata, inclinato all'indietro sulla poltroncina dallo schienale elastico. Era difficile che li dentro qualcuno
potesse seguire un solo pensiero senza venire interrotto e deviato per doppi o tripli o quadrupli binari da seguire simultaneamente. Per questo
l'attitudine a non concentrarsi su niente in modo univoco era così ben vista in redazione, al punto da venire ostentata come una vera virtù man mano
che si saliva nella scala del potere.
Cercavo di non fissare Tevigati con troppa insistenza; guardavo gli aerei che decollavano dall'aeroporto poco lontano e salivano oltre le file di
pioppi nel cielo biancastro. Pensavo che non era certo questo il lavoro che mi ero immaginato quando avevo cominciato a scrivere, ma d'altra parte
non c'erano molti punti di contatto tra le mie immaginazioni e la realtà . Almeno ricevevo uno stipendio regolare e potevo pagare l'affitto di casa,
invece di dover chiedere soldi ai miei come quando sognavo di fare il giornalista investigativo o lo scrittore di romanzi, senza che nessuno venisse a
impormi i verbi e contingentarmi gli aggettivi.
Tevigati ha messo giù la cornetta, ha teso le labbra in una specie di sorriso assorto. Gli ho detto: « Eccomi qua»; ma il suo sguardo non era
ancora a fuoco su di me. Ogni messaggio li dentro doveva aspettare e concentrarsi bene, guizzare attraverso i varchi che si aprivano ogni tanto in
modo da arrivare né prima né dopo il momento utile. Sono stato zitto, l'ho osservato mentre si mordicchiava un pollice, batteva rapido sui tasti del
telefono per farsi dare un numero da una segretaria. Per natura la sua attenzione scartava e scattava ogni pochi secondi, e questo doveva averlo
aiutato molto a conquistare il suo posto, e conservarlo attraverso tutti i cambiamenti di proprietari e direttori degli ultimi anni.
Senza staccare il ricevitore dall'orecchio ha tirato fuori da un cassetto un cartoncino d'invito, l'ha fatto scivolare verso di me con le dita dalle
unghie rovinate. Mi sono allungato a leggere: sotto l'intestazione di uno dei più grossi teatri di Milano e il simbolo del comune c'era scritto:
L'attivatore di sogni. Dramma concertante in due atti, e più in basso: da un testo di Marco Polidori. Ho guardato Tevigati, perchè il teatro era
territorio esclusivo di Angelo Zarfi, un critico grasso dalla voce acuta che compilava recensioni in forma di messaggi in codice per un piccolo giro di
affiliati. Le zone di competenza a Prospettiva erano ben divise da paratie stagne: la mia era a cavallo tra la cultura e il costume, in realtà molto più
costume che cultura, senza nessuna possibilità di venirne fuori in tempi ragionevoli. Tevigati ha detto: «Zarfi fa un pezzo sullo spettacolo, tu devi
intervistarmi questa qui.»
Ha sottolineato con la penna Maria Blini, nell'elenco del cast stampato sull'invito, a caratteri piccoli sotto i nomi di Remo Dulcignoni il regista
e Alda Celbatti la scenografa e Silvio Dramelli il compositore e Riccardo Sirgo il protagonista. Intanto continuava la sua ricerca al telefono: ha detto.
«No no, quello di Parigi. Parigi, cazzo.»
Era sempre compiaciuto di parlare volgare, in particolare con le redattrici donne, ma il suo tono serviva anche a tenermi in prospettiva
gerarchica, dimostrare che non avevo il minimo peso di fronte a lui. «Che lunghezza?», gli ho chiesto, solo per anticiparlo di qualche secondo.
Spesso facevo uno sforzo per convincermi che lavorare li dentro mi serviva come fonte di ispirazione; altre volte invece ero sicuro che avrebbe
distrutto per sempre la mia capacità di scrivere in modo libero.
Tevigati ha detto: «Trenta righe», come se non stesse parlando proprio a me. Si mordicchiava il pollice, sbuffava nella cornetta, non mi
guardava. Gli ho chiesto: «Per quando?». Lui ha indicato spazientito il cartoncino che avevo davanti, dov'era stampata la data di quel giorno. Ha
detto: «Domattina. Esce in questo numero. Mettici un po' di colore, cerca di farla venire un po' fuori come personaggio.»
Gli ho detto: «Non so se ce la faccio, questa sera». Avevo degli impegni.
Lui si è messo a gridare al telefono: «Certo quello dell'ufficio, porca puttana! E un'ora che sono qui!».
L'ultima cosa che avrei voluto fare quella sera era andare a vedere drammi concertanti e intervistare attricette d'assalto, scrivere trenta righe di
scemenze come se fossero una corrispondenza di guerra. Avevo promesso a mia moglie Caterina di portarla a mangiare fuori; era giovedì e non ne
potevo più di cercare frasi semplici e corte e a effetto per vellicare la curiosità fluttuante dei lettori di Prospettiva.
Ma Tevigati era troppo nervoso per parlargli: ha sbattuto giù la cornetta e mi ha cacciato in mano l'invito, ha detto: «La vita è fatta anche di
piccoli sforzi extra, caro Roberto Batan». Mi faceva rabbia il suo modo di chiamarmi per nome e cognome: il tono goliardico o da servizio militare
che ci metteva ogni volta. Poi la spia del suo telefono si è messa a lampeggiare, gli aghi della sua stampante da tavolo hanno cominciato a grattare
sul foglio, una redattrice è arrivata con una cartellina in mano; Tevigati mi ha fatto un mezzo cenno di congedo e la sua attenzione se n'è andata del
tutto.
Appena a casa ho detto a Caterina che non potevamo uscire a cena perchè dovevo andare a teatro e fare l'intervista all'attricetta. Mi è sembrata
solo leggermente delusa, annoiata e intristita dall'inverno, e invece due minuti dopo l'ho vista appoggiata alla finestra del soggiorno con gli occhi
pieni di lacrime.
Le ho chiesto cosa aveva, l'ho presa per una spalla; lei si è liberata di scatto, ha detto:
« Va' al diavolo, lasciami in pace».
Ho cercato di spiegarle che non era colpa mia e non ci potevo fare niente, ma lei si è messa a gridare che era stufa di passare le sere in casa a
morire di noia, stufa che io non riuscissi a farmi valere una volta con Tevigati. Così la frustrazione che avevo dentro mi ha fatto rifluire i sensi di
colpa in rabbia, e le ho gridato nel suo stesso tono che non lavoravo certo a Prospettiva per divertirmi, me ne sarei già andato da un pezzo se fossi
stato solo e senza bisogno di mantenere una vita stabile e aiutarla a fare la giovane oculista di rincalzo nel suo studio polispecialistico.
Le nostre voci e le parole che sceglievamo si sono deteriorate fino a diventare una specie di scontro di cani; ho preso il cappotto e sbattuto la
porta d'ingresso, sono corso giù dalle scale travolto dalla rabbia e dalla stanchezza e dalla fame e dal dispiacere. E una volta in strada la macchina
non partiva, avevo dimenticato le luci accese e la batteria era morta. Ho dovuto andare a piedi fino alla fermata degli autobus e aspettare quasi venti
minuti nella nebbia gelida e velenosa; quando sono arrivato in centro mancava ancora un'ora all'inizio dello spettacolo.
Guardavo i bar e le paninoteche illuminate, ma non avevo nessuna voglia di entrare a mangiare da solo; ho girato cinquanta volte intorno agli
stessi isolati per far passare il tempo. Poi di colpo erano le nove meno cinque e ho accelerato il passo, ho quasi corso per l'ultimo tratto. L'atrio del
teatro era caldo come una sauna, pieno di gente vestita con cura ossessiva occupata in manovre intorno al botteghino e in consegne di cappotti e
pellicce al guardaroba, in conversazioni punteggiate di continui sorrisi e occhiate laterali e gesti di saluto e sguardi all'orologio. Era una folla da
prima, molto più eccitata del pubblico medio borghese e leggermente sordo che di solito frequenta quel genere di teatro a Milano: c'erano i
pubblicitari e gli architetti e i giovani manager e i figli di famiglia, le lunghe modelle americane e le manageresse e le psicologhe e le fidanzate che
fumavano sigarette come pazze, le signore mature dai capelli tinteggiati di mogano e acero, le signore più anziane dalle teste inturchinite e
impannocchiate, tenute in piedi da corsetti e fasce elastiche e scarpe a pianta quadra, tacchi spessi e duri come zoccoli di zebra.
Gli invitati più prestigiosi stavano arrivando solo all'ultimo momento, finti distratti nell'attenzione generale: il sindaco con moglie e figlia
coperte di vestiti di sartoria e bracciali d'oro, il nuovo sovrintendente della Scala, un paio di attrici e attori televisivi, uno stilista, una ballerina, una
cantante dalla faccia così rifatta che non provava neanche più a cambiare espressione. Alcuni di loro li avevo dovuti intervistare al telefono per
Prospettiva sugli argomenti più diversi; mi colpiva vedermeli passare di fianco come materializzazioni di atteggiamenti vocali, nessuno di loro con la
minima idea di avermi mai parlato con tanta finta accessibilità.
Poi le luci si sono spente e accese e spente, la folla ha cominciato a premere verso gli ingressi alla sala; mi sono lasciato trasportare dal flusso.
Lo spettacolo era una produzione costosa, un miliardo e mezzo di soldi pubblici devoluti a realizzare le fantasie frigide del regista Dulcignoni e della
sua scenografa Celbatti. Il protagonista era Riccardo Sirgo con il suo riporto di capelli tinti e il suo doppio mento, traboccante di tutti i vezzi e gli
stereotipi del teatro istituzional-sperimentale italiano, compiaciuto in maniera quasi intollerabile della sua voce di rana gigante Cinque attori più
giovani, muscolosi e rapati come bruti, gli si muovevano intorno tra scale e scivoli e schermi di proiezione, salivano e scendevano da grossi cubi
montati su binari.
Dulagnoni e Sirgo dovevano avere lavorato insieme con grande impegno a rendere innaturale la cadenza di ogni frase e togliere senso a ogni
parola, farla uscire gorgogliata e rantolata e farfugliata in parallelo ai friniti e gli zoppicamenti dell'orchestra che saliva e scendeva dietro la scena su
una piattaforma mobile C'erano anche due attrici, vestite con tunichette di cotone grigio studiate apposta per scoprirle a ogni movimento e offrire
almeno un motivo di interesse al pubblico Una delle due era brutta, con capelli corvini da comparsa d'opera e ossa grosse da maratoneta, ma l'altra
aveva una figura svelta e ben formata, e una bella faccia dal naso spiritoso, capelli biondo grano tagliati a caschetto; aveva un modo sensuale di
muoversi, una voce leggermente roca e poco impostata rispetto agli altri attori. Anche se il suo ruolo era marginale e quasi solo decorativo, relegato a
poche battute e a movimenti di danza astratta, sembrava l'unico guizzo di vita in un panorama di cadaveri animati. Mi attirava la sua naturalezza fuori
luogo, il fatto che non avesse quasi niente della professionalità manierata così insopportabile nei suoi colleghi; mi attirava la sua fronte tonda, la sua
andatura fluida ma anche timida, le sue gambe dai polpacci pieni e dalle caviglie sottili.
Guardavo solo lei, e ogni volta che usciva di scena mi sentivo abbandonato alla noia e alla desolazione; continuavo a sperare che delle due
fosse lei la Maria Blini che dovevo intervistare.
Nell'intervallo sono andato nell'atrio saturo di fumo e conversazioni Ogni volta che qualcuno si spostava c'erano piccole onde di sguardi e
movimenti riflessi, avvicinamenti studiati per sembrare casuali.
Ogni volta che qualcuno salutava provocava reazioni a catena, battute e strette di mano, scoppi di risa e gesti a vuoto, nomi pronunciati come
parole magiche.
Mi aggiravo li in mezzo senza nemmeno voglia di provare ad assumere un atteggiamento, stanco e stufo e accaldato nelle mie scarpe dalla
suola grossa, nella mia giacca di tweed che già mi era pesata addosso per tutta la giornata.
Ho fatto un cenno a una mia ex compagna di liceo; lei è passata oltre senza neanche riconoscermi. Ho salutato Angelo Zarfi, il critico di
Prospettiva; mi ha fatto un sorrisetto appena percepibile e ha subito girato via la testa in cerca di chissà quali altri contatti.
Il secondo tempo dello spettacolo è stato ancora peggio del primo: ancora più sterile e persecutorio, senza misura e senza ritmo, senza il
minimo appiglio a cui attaccarsi a parte l'attrice biondina. Le parole attraversavano la scena come mezzi corazzati a una parata militare,
incomprensibili ma minacciose, si intersecavano secondo geometrie odiose; se non avessi avuto da guardare quella che speravo fosse Maria Blini
sarei scappato in strada ad aspettare la fine. Invece mi concentravo su di lei ed escludevo tutto il resto, anche quando era lontana o seminascosta dalla
scenografia monumentale. Seguivo i suoi movimenti con attenzione: come saltava e slanciava le braccia e si appoggiava agli altri attori e si lasciava
scoprire le gambe dalla tunichetta inconsistente, sempre con un fondo leggero di incertezza o di imbarazzo che a volte la faceva rallentare o
accelerare sul ritmo della coreografia d'insieme. Queste imprecisioni non la rendevano goffa, ma le davano risalto sul tessuto tetro dello spettacolo:
concentravano la mia attenzione sul suo modo di stare bilanciata sulle caviglie, o di scuotere i capelli corti quando si girava, una bella ragazza
generosa addestrata a un esercizio di cui non metteva in discussione il significato.
Quando lo spettacolo è finito ho aspettato in piedi tra gli applausi di liberazione e di dovere mescolati ai pochi applausi di entusiasmo e
insistiti allo stesso modo, sostenuti da grida e chiamate per il regista e la scenografa e il compositore e il protagonista L'attrice bionda correva fuori
scena con i suoi colleghi e tornava di corsa, sorrideva, faceva l'inchino per mano agli altri. La guardavo respirare affannata dopo due ore di
movimento continuo, partecipe dell'entusiasmo generale per Dulcignoni e la Celbati e Sirgo e Dramelli che ruotavano al centro del palco come
quattro regine.
Alla fine la gente ha cominciato a defluire dalla sala; ho seguito verso l'ingresso ai camerini una piccola processione di spettatori ansiosi di
vedere da vicino i responsabili dell'impresa e farsi vedere. Nel corridoio stretto sono stato scavalcato da uomini e donne che si protendevano in
abbracci e baci e complimenti senza proporzione a Dulagnoni e a Sirgo e alla Celbati e a Dramelli. Il sindaco continuava a dire: «Straordinario» nella
sua voce priva di colore; lo stesso aggettivo veniva ripetuto dagli altri visitatori di pregio con timbri ed enfasi diverse, provocando mezzi inchini e
sorrisi compiaciuti dalle quattro regine della serata. La figlia del sindaco cercava di fare la spiritosa con Sirgo: muoveva i fianchi e agitava le mani, i
suoi bracciali d'oro le scivolavano su e giù per le braccia secche. Sirgo scopriva i denti finti, recitava divertimento e attenzione come avrebbe potuto
fare in scena, ma stava attento a non farsi chiudere in un angolo, fuori portata da tutte le altre fonti di gratificazioni. Gli attori giovani erano più
avanti, nel corridoio o affacciati sulla porta dei loro camerini, pallidi e fradici di sudore, assediati da complimentatori e complimentatrici appena
meno prestigiosi di quelli che circondavano i protagonisti.
Ho chiesto a uno di loro chi era Maria Blini; lui senza guardarmi ha indicato la ragazza bionda, stretta da un gruppetto di tre o quattro
imbecilli traboccanti di aggettivi. Li ascoltava e sorrideva, timida e lusingata, elettrizzata dal clima della prima. Aveva una vera grazia naturale anche
vista da vicino; le lampade al neon del corridoio non le avevano tolto come ai suoi colleghi la luminosità tridimensionale di quando era sulla scena.
Appena il semicerchio che la assediava si è allentato per un attimo sono sgusciato avanti, le ho detto: «Sono Roberto Bata di 'prospettiva', dovrei
farle un'intervista, se ha cinque minuti».
Avevo caldo e mi sentivo troppi fiati e sguardi addosso; non ero abituato a dire questa frase faccia a faccia con qualcuno, per tutte le volte che
l'avevo ripetuta al telefono.
Lei ha detto: «Ah, si»; ma sembrava sorpresa e incerta, si è guardata intorno in cerca di appigli. In realtà da vicino era ancora più carina di
come sembrava sul palco, ancora più rara. Il trucco intorno agli occhi le era colato sulle guance, ma il suo sguardo color nocciola era ben nitido, e
così il taglio corto e larghetto del naso, gli zigomi alti, le labbra rosate e piene, i capelli biondi dai riflessi caldi. Respirava ancora fondo per lo sforzo
e le corse finali, nuda sotto il cotone umido, combattuta tra l'attenzione da dedicare a me e quella per gli altri che aspettavano intorno. La guardavo
da pochi centimetri, sospeso in una vibrazione quasi impercettibile delle sue labbra; mi ha chiesto: «Non potrebbe aspettare qualche minuto?»
Le ho detto certo, certo fin troppo in fretta, sono arretrato fino alla parete; gli altri mi hanno scavalcato subito, ansiosi di esibirsi in nuove frasi
preparate. Sono rimasto in un angolo forse un quarto d'ora, a guardare il traffico dei complimentatori, ascoltare le loro battute con sempre meno
curiosità.
Erano le undici passate ed ero stanco e morto di fame, dispiaciuto per la litigata con Caterina, confuso dalle sensazioni che avevo provato
mentre parlavo a Maria Blini. Pensavo alle domande che avrei potuto farle senza essere troppo scontato o invadente; alle trenta righe che avrei
dovuto consegnare il mattino dopo; cercavo una frase d'attacco e non mi veniva in mente. A un certo punto anche i complimentatori più insistenti se
ne sono andati, insieme a Dulcignoni e alla Celbatti e a Dramelli; gli attori giovani hanno cominciato a scambiarsi battute rapide sullo spettacolo,
rimproveri e giustificazioni tecniche, finti pugni. Ho cercato di riavvicinarmi a Maria Blini, ma Sirgo è arrivato prima di me e l'ha abbracciata, sudato
e senza forma com'era, l'ha sbaciucchiata sui capelli dicendo: «La deliziosa, la deliziosa!» nella sua voce di batrace impostato.
Anche i maschi giovani della compagnia si sono prodotti in galanterie con lei e con l'altra ragazza prima di infilarsi sotto le docce, anche se era
chiaro che non avevano molto interesse per le donne. C'era un clima cameratesco tra loro, una confidenza fisica che mi faceva sentire ancora più
stanco e tagliato fuori.
Poi Maria Blini si è accorta di me; ha detto: «Mi scusi tanto Se può aspettarmi ancora cinque minuti, faccio una doccia e mi vesto».
Doveva essere sfinita a questo punto, ma non si vedeva, sembrava ancora piena di voglia di muoversi e di apparire. Così mi sono seduto su
una panca di ferro nel corridoio, mezzo preoccupato per l'ora, mezzo contento che la situazione si prolungasse.
Una aiutocostumista è arrivata a raccogliere gli abiti di scena buttati per terra dagli attori; sul palco dietro di noi i macchinisti trafficavano per
rimettere a posto i congegni di scena. Ascoltavo i colpi di martello e il cigolìo di carrucole, lo scrosciare d'acqua nelle docce; un attore che fischiava,
un altro che si faceva un gargarismo.
Finalmente Maria Blini è arrivata, con i capelli ancora umidi, vestita di una giacchetta nera e pantaloni neri di velluto. Le ho chiesto dove
potevamo andare per l'intervista; lei ha detto: «In qualunque posto, basta che ci sia da mangiare». Ha sorriso, con una mano sullo stomaco.
Le ho detto: «Certo»; anche se avevo pensato di farle le mie domande lì in teatro e tornarmene a casa, e non sapevo affatto dove portarla a
quell'ora. Ma ero affamato anch'io, e l'idea di mangiare fuori con una ragazza così bella mi faceva battere in modo irregolare il cuore. Lei ha preso
nel camerino un cappottino corto di lana nera, ha salutato gli altri attori che stavano finendo di vestirsi o pettinarsi e mi ha fatto strada verso l'uscita
di servizio. Ero colpito da come la sua gentilezza formale si mescolava a un modo di fare molto più istintivo, la sua timidezza a una confidenza fisica
di persona che lavora con il proprio corpo e ne è divertita. La guardavo camminare, ed ero incantato da come si muoveva; da come si è girata un paio
di volte a sorridermi. Ma appena fuori sul marciapiede c'era un gruppetto di persone infreddolite ad aspettarla.
Un tipo dai capelli lisciati all'indietro ha detto: «Finalmente!», è venuto a prenderla per le braccia; e dietro di lui c'era una ragazza alta che si
guardava intorno come una giraffa, e una coppia tutta rigida che avevo visto prima nei camerini, e un tipo con la testa rapata vestito di pelle nera.
Insieme hanno fato nuovi complimenti a Maria come a una bambina uscita da scuola; parlavano e la guardavano e si voltavano verso due grosse
macchine ferme in costa al marciapiede, impazienti di andare, senza neanche vedermi Maria mi ha dato un'occhiata incerta; ha fatto un gesto per gli
altri, ha detto: «Lui è Roberto, di 'Prospettiva'» Loro hanno detto: «Salve» con pochissimo entusiasmo; solo il tipo dai capelli lisciati mi ha stretto la
mano, ha detto: «Luciano Merzi», ma non sembrava certo cordiale. Poi alle mie spalle è uscito Sirgo con sciarpa e cappello e bavero rialzato come
una parodia di attore, seguito dall'altra attrice più brutta.
Senza quasi guardare nessuno ha detto: «Dov'è la macchina, che mi prendo una polmonite?»
L'uomo della coppia rigida gli ha aperto subito la portiera di una delle due macchine; io e Maria e la ragazza giraffa e il tipo rapato siamo saliti
su quella di Luciano Merzi. Abbiamo girato per il centro della città affogata nella nebbia, Maria seduta davanti come un ostaggio di riguardo, io
dietro tra la ragazza giraffa che non diceva una parola e il tipo rapato che continuava a fare considerazioni sulla straordinarietà della scenografia.
Merzi guidava con estrema lentezza; girava le mani guantate sul volante, spiegava a Maria quanto la sua presenza era stata fondamentale
nell'equilibrio dello spettacolo.
Lei si scherniva, diceva: «Se ho sbagliato metà degli attacchi!»
Ma era chiaro che i complimenti le facevano piacere: glielo si sentiva nella voce.
Luciano Merzi non conosceva bene la strada, o forse voleva tenerci in macchina più che poteva; quando finalmente si è fermato dopo una serie
di giri in tondo eravamo a forse trecento metri dal teatro, ci avremmo messo pochi minuti a piedi. Siamo scesi davanti a un edificio ottocentesco dalla
facciata gialla, Merzi ha indicato in alto una fila di finestre illuminate. Eravamo nel cuore del cuore di Milano, all'interno del piccolo perimetro dove
i grandi stilisti e gioiellieri hanno i loro atelier e le case costano più che in qualunque altra parte d'Italia.
Gli unici rumori di traffico arrivavano da lontano, i marciapiedi erano immacolati e deserti. Non avevo nessuna voglia di andare a un
ricevimento in una casa come quella a quel punto della sera; ma Merzi ci ha sospinti dentro, era tardi per dirgli qualcosa.
L'ascensore dava in una specie di grande bombonieraguardaroba tutta stucchi e legni pregiati e velluti e vetri, fin troppo illuminata e
riscaldata, collegata a una sala piena di gente. La padrona di casa era piccola e bionda, senza rughe e senza età apparente; teneva Sirgo per tutte e due
le mani nel corridoio, appena ha visto Maria se l'è tirato dietro per agguantare anche lei. A sentire la sua voce mi è venuto in mente che si chiamava
Paola Zobeto di Susta, le avevo telefonato una volta per un giro d'opinioni sul ritorno delle pellicce. Ha preso sottobraccio Maria e Sirgo, uno per lato
come una bassa regina esuberante, li ha trascinati verso la sala. Io e Merzi e il tipo rapato e la ragazza giraffa li abbiamo seguiti, tra gli ex spettatori
di pregio concentrati intorno al sindaco e a sua moglie e a sua figlia e a Dulagnoni e alla Celbatti e a Dramelli.
Bevevano champagne, pescavano manciate di noccioline e salatini da ciotole disposte su ogni superficie utile, parlavano e parlavano. Ho preso
un bicchiere anch'io, a disagio peggio che a teatro, con i miei vestiti da giorno e le mie intenzioni di lavoro in mezzo agli abiti da sera e alle facce
frivole che già avevo avuto modo di osservare troppo a lungo.
Poi la padrona di casa ha richiamato l'attenzione verso una lunga tavola dietro cui alcuni camerieri erano pronti a scodellare cibo, e gli ospiti si
sono mossi senza smettere i loro discorsi e atteggiamenti. Ma avevano tutti una fame furiosa, e presto c'è stata una calca quasi violenta lungo il
tavolo: sgomitamenti e spinte per riuscire a farsi riempire un piatto e andare ad appoggiarsi a un mobile o a una parete, sedersi su sedie o poltrone o
divani con sguardi che si spostavano dalle facce al cibo alle facce senza tregua. Mi rendevo conto che non c'era la minima possibilità di fare la mia
intervista in quelle condizioni; già mi immaginavo la faccia di Tevigati.
Poi ho rivisto Maria Blini con il suo piatto vicino a una finestra, attanagliata da un lato da un regista pubblicitario e dall'altro da Luciano
Merzi, e sono andato da lei, le ho chiesto se non poteva dedicarmi solo cinque minuti in un angolo più tranquillo della casa. Lei ha detto subito:
«Certo, scusa tanto»; si è rivolta a Luciano Merzi, in atteggiamento di chi non può risolvere da sola una situazione di questo genere.
Merzi a malincuore è andato a parlare alla padrona di casa; da lontano ho visto che lei gli chiedeva per quale giornale lavoravo, l'ho vista fare
di sì con la testa quando lui le ha detto Prospettiva. E’ venuta da noi e ci ha guidati fino a una saletta chiusa da una porta a due battenti.
Mi ha detto: «Non ce la sequestri per un'ora», con un sorriso freddo che le increspava agli angoli la pelle tirata della faccia. Così io e Maria
Blini siamo rimasti soli, seduti ai due estremi di un divanetto molto imbottito. Lei ha posato su un tavolino intarsiato il suo piatto di maccheroncini in
besciamella; io ho tirato fuori di tasca il mio piccolo registratore a pile e l'ho posato di fianco al suo piatto.
Le ho fatto la prima domanda scontata che mi veniva in mente senza pensare, ho detto: «Come ha iniziato a fare l'attrice?» E non era certo la
situazione ideale per un'intervista, stanchi e frastornati e affamati com'eravamo tutti e due, con le voci e i rumori della festa che arrivavano attraverso
la porta, eppure lei è riuscita a rispondere senza gli atteggiamenti o le ruffianerie a cui di solito ricorrono anche gli intervistati che appaiono più
spontanei. Parlava come avrebbe potuto fare con un amico di cui si fidava, non si riparava dietro cautele diplomatiche o entusiasmi recitati. Quando
le ho chiesto cosa pensava dello spettacolo mi ha risposto che era stata un'esperienza interessante ma lontana dai suoi gusti, il modo di dirigere e il
carattere di Dulcignoni spesso l'avevano esasperata. Le guardavo le labbra mentre parlava, le guardavo le mani e i polsi, gli avambracci bianchi e
lisci come si intravedevano dalla giacchetta. Facevo di sì con la testa, ma senza raccogliere una per una le sue parole; ero sorpreso dal suo modo di
fare, dalla confidenza ingenua e quasi arrischiata con cui rivelava i suoi pensieri. Guardavo il suo piatto di maccheroncini sul tavolino, anche, perchè
stavo morendo di fame: ho pensato due o tre volte di chiederle se potevo prenderne una forchettata, ma non osavo. Facevo fatica a concentrarmi sulle
mie domande, facevo uno sforzo incredibile per sembrare più serio e sobrio e puntuale di come ero. Le ho chiesto quali programmi aveva dopo
L'attivatore di sogni; lei ha detto che non sapeva ancora, tranne forse a primavera una parte in un film ambientato in Sicilia. Senza allontanarmi dai
miei stereotipi di intervistatore le ho chiesto se le interessava di più il cinema o il teatro; lei ha detto: «Non lo so. Il cinema è più eccitante come idea,
è così amplificato e smagliante e ricco e simultaneo Ma se non sei proprio una star resti lì ore di seguito ad aspettare che sistemino le luci e i carrelli
e tutto il resto, e quando finalmente ti fanno recitare dura pochi minuti, e hai solo un'idea vaga dell'insieme Devi aspettare di vedere il film per capire
esattamente cosa facevi».
D'improvviso sembrava distratta e a disagio, faceva quasi fatica a parlare. Ha indicato il piatto che aveva davanti, mi ha chiesto: «Ti secca se
mangio? Sto per svenire dalla fame, credo».
Le ho detto: «Mangia, mangia»; lei si è buttata con vera voracità sui suoi maccheroncini in besciamella. Ero colpito dall'energia vitale dei suoi
gesti, adesso che non si tratteneva più: da come la sua fame sembrava infinitamente più allegra e interessante di tutte le manfrine e i finti esercizi di
intelligenza che avevano affollato la serata.
Mi ha chiesto se ne volevo anch'io, ma per qualche stupida ragione le ho detto di no; ho continuato a guardarla, con lo stomaco e il cuore che
mi facevano male ogni volta che una nuova forchettata di maccheroncini spariva tra le sue belle labbra. Avrei dovuto farle qualche domanda standard
sulla sua vita non professionale, chiederle se viveva da sola o con qualcuno e che hobby aveva, ma già così mi sentivo in un ruolo abbastanza
stupido.
Le ho chiesto se le piaceva Milano; lei ha detto No, senza neanche aggiungere che in compenso le piacevano i milanesi come si fa in questi
casi. Le ho chiesto cosa leggeva; lei ha detto Di tutto, l'ultimo libro che aveva letto prima delle prove era Un eroe del nostro tempo di Lermontov.
Non cercava affatto di apparire colta o intelligente: rispondeva d'impulso, a tratti si confondeva, rideva, allungava la forchetta verso il suo piatto, mi
guardava. Così mi è venuto l'impulso di raccontarle che lavoravo a Prospettiva per sopravvivere ma in realtà avrei voluto fare lo scrittore. Le ho detto
che stavo scrivendo un romanzo ambientato nella mia redazione, l'avevo quasi finito. Era un argomento di cui non parlavo mai con nessuno, a parte
Caterina, ma avevo voglia di non apparire ai suoi occhi solo come un raccoglitore di pettegolezzi; cercavo disperatamente di proporle un'immagine di
me più interessante.
Lei ha detto: «Davvero?», con una luce curiosa negli occhi come avevo sperato.
Ma nello stesso momento la porta a due battenti si è aperta, la padrona di casa si è affacciata a dirmi: «Ha finito di sequestrarci questa
poverina? Non l'ha neanche lasciata mangiare».
Non era difficile leggere il fastidio vero sotto la sua finta indignazione; ho detto: «Finito, finito», mi sono alzato in piedi. Me ne sono pentito
quasi subito, ma tardi, perchè le porte erano già spalancate e la stanza invasa di gente e voci e fumo, Maria Blini già risucchiata a due metri da me tra
richieste e offerte di attenzione, nuovi sorrisi, gesti ridondanti. Mi sono chinato a raccogliere il mio registratore, e ho notato una vibrazione quasi
impercettibile tra la gente che avevo intorno; un attimo dopo ho visto che era entrato Marco Polidori.
Era meno alto di come sembrava nelle fotografie o alla televisione, ma solido di figura, elegante in un abito nero tagliato morbido rispetto a
quelli imbottiti e sagomati degli altri invitati. I suoi famosi capelli grigi corti alle tempie e sulla nuca gli ricadevano a ciuffo sulla fronte, i suoi
famosi occhi scuri sembravano penetranti come nelle quarte di copertina dei suoi libri. Assecondava con agio le pressioni della padrona di casa che
gli stava attaccata al fianco, scambiava saluti e battute con gli ospiti verso cui veniva pilotato. Da come sorrideva e da come teneva le mani in tasca
era chiaro che non doveva divertirsi; ma sapeva di avere l'attenzione su di sé , la sosteneva con una disinvoltura ben collaudata Rispetto a Riccardo
Sirgo sembrava un attore di scuola molto più moderna, misurato e preciso, attento alle sfumature invece che ai gesti a effetto Lo guardavo mentre si
muoveva tra gli sguardi lunghi delle invitate donne, e pensavo che forse era questa sua capacità di cogliere gli equilibri giusti a permettergli di essere
a cinquantatré anni lo scrittore italiano più conosciuto nel nostro paese e nel mondo, i suoi romanzi venduti a centinaia di migliaia di copie e tradotti
all'estero e trasformati in film, i suoi titoli riciclati da semiologi e pubblicitari e politici Marco Polidori era in una categoria a parte rispetto ai
personaggi che sentivo al telefono per Prospettiva: una volta che avevo suggerito di chiedere il suo parere su qualcosa Tevigati mi aveva detto:
«Quello non si abbassa a parlare coi giornali». Non era vero, ma certo stava attento a tenersi fuori dalla mischia bassa, non sovraesporsi o svendersi
in accostamenti al di sotto della sua fama.
Rilasciava interviste di rado, e solo se avevano un rilievo adeguato; andava alla televisione solo in programmi dignitosi, e quando era sicuro di
essere l'ospite d'onore In questo modo era riuscito a diffondere la sua immagine e tenerla viva senza inflazionarla, farsi conoscere da tutti senza
contaminare una reputazione che pochi suoi colleghi avevano.
La padrona di casa l'ha condotto di invitato in invitato fino a Maria Blini, li ha presentati. Lui le ha stretto la mano con un gesto elegante; ha
detto: «Complimenti. Pare che tutti siano incredibilmente entusiasti».
Aveva una leggerissima cadenza triestina in un accento neutro; parlava con il minimo indispensabile di voce.
Maria gli ha risposto: «Pare di si», in un tono diverso da quello che aveva usato con me fino a un attimo prima.
Vedevo i suoi lineamenti morbidi tesi in un'espressione più guardinga e adulta, le sue belle labbra contratte in un mezzo sorriso intimidito. E
ha fatto un gesto verso di me, ha detto: «Lui è Roberto Banta, di 'Prospettiva'».
«Bata», ho precisato io, allungando la mano Polidori me l'ha stretta e mi ha guardato solo per un istante, ma ho provato una sensazione
difficile da definire. Non aveva niente a che fare con l'idea di incontrare un personaggio famoso; veniva da una luce di opinioni molto focalizzate nel
suo sguardo, un riflesso scuro e ironico di giudizi netti. Non conoscevo quasi i suoi libri, a parte un paio di capitoli di Sassi di fiume studiati al liceo,
e metà de L'amplesso mimetico leggiucchiato sopra la spalla di Caterina durante una vacanza in Spagna. Non lo avrei citato tra i miei scrittori
preferiti se me l'avessero chiesto; eppure trovarmelo di fronte mi ha emozionato come non mi era capitato spesso.
Polidori è tornato quasi subito a guardare Maria Blini.
Lei di nuovo mi ha indicato: ha detto «Non fa solo il giornalista. Scrive romanzi anche lui». Me l'aspettavo talmente poco che sono diventato
rosso dall'imbarazzo, mi sono guardato intorno tra le facce distratte e irritate degli altri invitati senza sapere come uscirne.
Polidori aveva un'aria spazientita a doversi ancora soffermare su di me: a bruciapelo mi ha chiesto: «E anche lei è entusiasta dello spettacolo?»
Era tutta una situazione strana, tra Maria Blini e la stanchezza e il disagio e gli invitati, il tono della sua domanda come se volesse mettermi
alla prova. Gli ho detto: «Non tanto. Anzi, per niente».
Subito dopo ho sentito un silenzio innaturale tutto intorno; la padrona di casa mi guardava come se le avessi sputato sul parquet ben
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