Il Corriere della Sera - 19.09.2009.pdf

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Corriere
SABATO 19 SETTEMBRE 2009 ANNO 134 - N. 222
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Il giallo della Formula 1
Evasione fiscale
In edicola
I nuovi segreti dell’affaire Briatore
Pignorati gli orecchini
di Maradona
Il valore: 4 mila euro
La cucina
del Corriere
I verbali di papà Piquet: «Alonso sapeva»
Appuntamento
con il gusto
A. Ravelli, G. Terruzzi, F. Vanetti pagg. 58 e 59
M.A. Calabrò apagina31
4,90 euro
più il prezzo del quotidiano
«L’Italia resterà inAfghanistan»
L’inchiesta
Il caso
Napolitano: governo diviso? Chiedete al premier. Bossi: no al rientro subito
Le ragazze
islamiche
sospese
tra due culture
E nel Nord
non arrivano
richieste
di ronde
IL C OSTO DELL’ A MBIGUITÀ
Domani in Italia le sal-
me dei sei parà italiani uc-
cisi da un’autobomba a
Kabul. Lunedì funerali so-
lenni e lutto nazionale. Il
presidente Napolitano
sul ritiro dei nostri solda-
ti in Afghanistan: «La mis-
sione va avanti. Gli impe-
gni vanno mantenuti. Di-
visioni nel governo? Chie-
detelo al premier». Berlu-
sconi: «Serve una strate-
gia di transizione. Va au-
mentata la capacità del
governo Karzai di prende-
re in mano la situazione
della sicurezza del Paese
e quindi di consentirci di
far rientrare i nostri mili-
tari». Bossi, intanto, fre-
na: no al rientro subito.
DA PAGINA 2 A PAGINA 9
di MARCO IMARISIO
di DINOMARTIRANO
Giannelli
Il reportage
L i hanno battezzati
Ronde? Sono passati 40
giorni dall’8 agosto
scorso, in cui il ministro
Roberto Maroni le ha
varate, ma, per ora, il
numero dei nuovi
gruppi è prossimo allo
zero nel Nord Est, a
Milano e a Torino. A
Roma due richieste sono
state respinte per
irregolarità burocratiche.
Il nodo potrebbe stare
nella difficile
interpretazione della
legge.
Spunta anche un’ipotesi:
un percorso di
formazione per istruire i
capi ronda.
In pattuglia
sul blindato
con i parà
«G2», seconda
generazione. Sono un
milione di ragazzi e
ragazze (ogni anno se ne
aggiungono centomila)
figli di immigrati ma
cresciuti in Italia. Si
chiamano Tarah,
Meryem, Abdallah.
Sospesi tra due mondi e
due culture, cercano di
generarne una nuova.
Ma qualche volta la
cultura del Paese di
adozione li respinge. E
quella del Paese di
origine può arrivare a
ucciderli, come è
successo a Sanaa .
ALLE PAGINE 22 e 23 Alberti
L a caccia ai respon-
sabili, in una vicen-
da come quella di
Kabul, è un eserci-
zio che non rende omaggio
ai morti e diventa spesso
occasione di interessati bi-
sticci politici. Non è inutile,
invece, chiedersi se la pre-
senza italiana in Afghani-
stan risponda a una ragio-
nevole politica nazionale. È
giusto inviare «truppe di
pace» in un Paese dove si
combatte? È giusto esporre
i propri soldati alle insidie
del nemico, ma evitare al
tempo stesso che si com-
portino, in tutto e per tut-
to, come forze combatten-
ti?
anni, il prezzo che il Paese
doveva pagare per avere un
rango internazionale corri-
spondente alle sue ambizio-
ni. Ciò che ha fatto l’Italia
non è sostanzialmente di-
verso da ciò che hanno fat-
to, tra gli altri, la Gran Bre-
tagna, la Francia, la Spa-
gna, la Polonia, l’Ucraina e
da ultimo, con maggiori dif-
ficoltà, la Germania.
Ma nel caso dell’Italia, co-
me per certi aspetti in quel-
lo della Germania, esistono
peculiarità che hanno con-
dizionato la politica dei go-
verni. Il Paese è stato mala-
mente sconfitto durante la
Seconda guerra mondiale e
ha sviluppato da allora una
«cultura della pace» in cui
si sono confuse componen-
ti diverse: pensiero cattoli-
co, neutralismo, odio per
gli Stati Uniti e una conce-
zione dogmatica dell’artico-
lo della Costituzione in cui
l’Italia «ripudia la guerra».
I governi hanno dovuto ve-
nire a patti con questi senti-
menti e hanno creduto di ri-
solvere il problema man-
dando «truppe di pace» in
teatri di guerra. E per di
più, come se il tasso d’ambi-
guità non fosse già suffi-
cientemente elevato, han-
no ridotto i bilanci delle
Forze Armate al limite della
sopravvivenza. È questa la
ragione per cui la perdita
di un soldato, quando acca-
de, appare alla società italia-
na molto più inattesa, in-
comprensibile e assurda di
quanto non appaia in Paesi
dove i governi hanno parla-
to alla loro opinione pubbli-
ca con maggiore chiarezza
e hanno fornito ai loro sol-
dati le armi di cui avevano
bisogno. Forse è giunta an-
che per il governo italiano
l’ora di dire francamente
perché siamo in Afghani-
stan e quali siano i rischi
da correre. L’ambiguità, do-
po i fatti di Kabul, offende
il Paese e i suoi morti.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
di LORENZO CREMONESI
Folgore il giorno dopo la
strage di Kabul. A bordo di
blindati Lince «gemelli» di
quelli attaccati dai kamikaze,
i primi a uscire dopo
l’attentato. «Un po’ di paura
c’è, ma è il nostro lavoro.
Siamo qui per portare la pace,
dobbiamo stare tra la gente».
ALLE PAGINE 2 E 3
A PAGINA 24
L’invio di truppe in un
Paese straniero per creare
o mantenere condizioni di
pace appartiene alla logica
dell’Onu e ai principi della
comunità internazionale. E’
stata questa la ragione per
cui abbiamo inviato milita-
ri in Congo, Libano, Soma-
lia, Bosnia e Kosovo. Atten-
zione. Nessuna di queste
operazioni è stata totalmen-
te disinteressata. Siamo an-
dati in Iraq, dopo l’occupa-
zione americana, perché il
governo Berlusconi ritene-
va utile, in quelle circostan-
ze, essere al fianco degli
Stati Uniti. Siamo andati in
Libano perché il governo
Prodi riteneva che la nostra
presenza militare, dopo la
guerra israeliana, avrebbe
conferitomaggiore credibi-
lità alla nostra politica me-
dio-orientale. Siamo in Af-
ghanistan perché gli Stati
Uniti hanno chiesto alla Na-
to di essere aiutati a sbro-
gliare una matassa che la
frettolosa guerra di Bush
aveva reso particolarmente
imbrogliata. Viviamo tem-
pi tumultuosi in cui il pre-
stigio internazionale di un
Paese si misura dalla sua ca-
pacità di partecipare a
un’operazione militare. Un
contingente di truppe è sta-
to molto spesso, in questi
Tensione in Iran, assalto all’ex presidente e a Mousavi
Bari I pm: spaccio di droga e pressioni sui testimoni
«Potrebbe fuggire»
Arrestato Tarantini
È stato fermato dai fi-
nanzieri sulla scaletta del-
l’aereo da Roma appena at-
terrato a Bari e subito por-
tato in carcere. L’imputa-
zione, per Giampaolo Ta-
rantini, è quella di spaccio
di sostanze stupefacenti: i
magistrati pugliesi ne han-
no disposto l’arresto per il
pericolo di fuga e l’inqui-
namento delle prove. Il so-
spetto è che Tarantini non
abbia davvero raccontato
la verità sulle ragazze re-
clutate per le feste organiz-
zate da Silvio Berlusconi,
né sulla droga ceduta ad
amici e conoscenti in cam-
bio di appalti e favori. Il gi-
ro di droga sarebbe stato
ben più imponente di
quanto confessato da Ta-
rantini. «Sono sgomento
— ha detto l’imprenditore
al suo legale — stavo colla-
borando lealmente».
ALLE PAGINE 12 E 13
Piccolillo e Sarzanini
Sette giorni
di Francesco Verderami
Berlusconi-Fini
Un faccia a faccia
dopo lo scontro
cofondatori di un partito. Ma
quando Silvio Berlusconi e
Gianfranco Fini si vedranno,
sarà un incontro tra poteri che
perseguono ormai obiettivi
diversi, consapevoli però di
dover trovare un’intesa,
quantomeno un compromesso.
Sarà elettricità pura. Sarà vietato
il cortocircuito.
Da un paio di giorni il premier e
il presidente della Camera
avevano capito che non era più il
tempo di farsi la faccia feroce,
che era giunta l’ora di vedersi.
CONTINUA A PAGINA 15
Khatami aggredito, il turbante gettato via
di VIVIANAMAZZA
Sfidando la Guida suprema, l’ayatollah Khamenei,
e i pasdaran, decine di migliaia di iraniani sono
tornati in piazza, scandendo slogan in favore del
leader Mousavi. Ne sono nati scontri con la
polizia e i miliziani del presidente Ahmadinejad.
Bastonate, arresti, feriti. Aggrediti l’ex presidente
Khatami (nella foto, mentre gli viene strappato il
turbante) e lo stesso Mousavi.
A PAGINA 17
mattia bernardo bagnoli
bologna permettendo
fazi editore
«Un noir di indagine con una serie
di morti ammazzati e di colpi di scena
che inchiodano alla pagina come solo
un buon noir, appunto, sa fare».
carlo lucarelli
La richiesta di Torino e la contemporanea trattativa degli Agnelli con Intesa
Fiat, incentivi o Fideuram? Qualcosa non va
by
di MASSIMOMUCCHETTI
L’ amministratore delegato Fiat
Prevenzione a scuola
Opposizione in piazza
Sergio Marchionne chiede una
nuova tornata di incentivi pubblici
in tutta Europa per sostenere la do-
manda di automobili e affrontare
una crisi ancora non domata. Negli
stessi giorni l’Exor, controllata dalla
famiglia Agnelli e detentrice del con-
trollo di fatto della Fiat, tratta con In-
tesa Sanpaolo l’acquisizione di Fi-
deuram, banca specializzata nella ge-
stione del risparmio raccolto da una
rete di promotori finanziari.
A PAGINA 10
«Con il virus
gite limitate
e attenti
alle matite»
«Aborto libero
a 16 anni»:
la nuova legge
divide la Spagna
di MARGHERITA DE BAC
di ELISABETTA ROSASPINA
A PAGINA 27
A PAGINA 19
Lunedì funerali solenni e lutto nazionale per i soldati uccisi. Berlusconi: una strategia di transizione
di SERGIO ROMANO
I n pattuglia con i parà della
S ono stati prima alleati e poi
154202700.068.png 154202700.079.png 154202700.090.png 154202700.101.png 154202700.001.png 154202700.012.png 154202700.020.png 154202700.021.png 154202700.022.png 154202700.023.png 154202700.024.png 154202700.025.png 154202700.026.png 154202700.027.png 154202700.028.png 154202700.029.png 154202700.030.png 154202700.031.png 154202700.032.png 154202700.033.png 154202700.034.png 154202700.035.png 154202700.036.png 154202700.037.png 154202700.038.png 154202700.039.png 154202700.040.png 154202700.041.png 154202700.042.png 154202700.043.png 154202700.044.png 154202700.045.png 154202700.046.png
2 Primo Piano
Sabato 19 Settembre 2009 Corriere della Sera
#
La strage di Kabul Il reportage
L’avanzata
talebana
160
i distretti afghani dove sono attivi i talebani
(su un totale di 364). Erano 30 nel 2003
Siamo i primi
militari italiani
a uscire a
Kabul dopo
l’attentato,
un po’ di paura
c’è, le
segnalazioni
di allarme
sono tante
❜❜
In pattuglia con i parà
«E’ il nostro lavoro»
DAL NOSTRO INVIATO
KABUL —Partiamo tre minuti dopo le sedi-
ci. Due blindati Lince della Folgore per dieci
uomini, lo stesso assetto dell’ultima pattu-
glia, l’altro ieri mattina, quella dell’attentato.
In circa tre ore percorreremo quasi 100 chilo-
metri, da est sulla Jalalabad road, dove si tro-
va il quartier generale di Camp Invicta, attra-
verso il centro, passeremo a 300 metri dal cra-
tere della bomba, nei pressi dell'aeroporto in-
ternazionale, per poi scendere verso
sud-ovest, sulla provinciale che conduce a
Kandahar, la roccaforte dei talebani. Preoccu-
pati? «Dire di non esserlo sarebbe falso, retori-
co. Certo che un po’ di paura c’è. È inevitabile.
Siamo la prima pattuglia italiana di Kabul che
esce dopo l’attacco. Dobbiamo rompere un ta-
bù. E il tragitto non è affatto tranquillo, le se-
gnalazioni di allarme sono numerose. Ma è il
nostro lavoro e lo svolgeremo, come si deve»
dice il sergente Giuseppe Pergola, comandan-
te della pattuglia, 30 anni, originario della pro-
vincia di Enna.
Mentre parla torna inevitabilmente alla me-
moria l’attentato di Nassiriya. Era il novembre
2003. Quella volta fu ancora peggio: più morti
tra i nostri uomini e la base dei carabinieri irri-
conoscibile. Ma allora le proteste, i risentimen-
ti, la sensazione di essere stati abbandonati da
Roma, l’idea che la strage fosse tutto sommato
prevedibile e dunque evitabile serpeggiarono
subito tra i militari in Iraq. Non qui, non ora.
«Praticamente non cambia nulla. Le nostre mi-
sure di sicurezza sono le stesse. Ai nostri colle-
ghi è andata semplicemente molto ma molto
male. Poteva capitare a chiunque: agli america-
ni, ai francesi, ai turchi, ai belgi. E invece è suc-
cesso a loro. L’attentatore suicida aveva con sé
una tal carica di esplosivo che neppure un car-
ro armato li avrebbe protetti» sostiene ancora
il sergente.
Nel Lince su questo punto sono tutti d’accor-
do. Al volante siede Marco Minniti. Un gigante
trentenne che ha una storia particolare. È nato
a Johannesburg, in Sudafrica, da padre sicilia-
no e madre irlandese. «Non ancora ventenne
decisi che volevo riscoprire le mie radici. Sono
tornato in Italia, ho affinato la lingua e quindi
mi sono arruolato» dice con un soffio di accen-
to straniero. Pergola lo tiene sempre con sé
A bordo dei Lince, il giorno dopo l’attentato
« Per portare la pace, dobbiamo stare fra la gente»
ge con il busto dal tetto. Inevitabilmente viene
il discorso sui due rallisti dei mezzi colpiti. Il
primo è stato trovato a decine di metri dal vei-
colo sventrato, dove sono morti anche i quat-
tro commilitoni. L’altro è invece stato l’unico a
perdere la vita tra il secondo equipaggio. «È un
attimo. Prima sei vivo e poi non ci sei più» sus-
surra una voce. Guardiamo fuori dai finestrini
blindati.
L’unico espediente per salvare il rallista è
cercare di prenderlo per i piedi e trascinarlo
sotto. Ma sarà davvero possibile? Non è un’il-
lusione? Per fortuna c’è poco tempo per pensa-
re. «Da Scorpius 41 a Scorpius 42» comunica il
comandante con altri due Lince destinati a in-
contrarci tra circa un’ora e mezza. Dalla radioli-
na di bordo gracchiano gli allarmi. «Attenti al-
le Toyota Corolla e ai minivan. C’è una manife-
stazione filopalestinese di 3.000 persone nel
quartiere dell’Hotel Intercontinental, passate
più a nord del centro» allertano dal comando.
Pergola su di un quadernetto da scuola ele-
mentare ha annotato una quindicina di targhe
sospette. E ogni tanto ordina a Miani di legger-
le con il cannocchiale. Questi urla da fuori per
comunicare con l’autista. E nel frattempo agi-
ta frenetico le braccia, punta minaccioso l’ar-
ma ogni volta che una vettura arriva troppo
vicina.
Jalalabad road è considerata pericolosa, la
abbandoniamo presto per entrare nel com-
prensorio sorvegliato da sentinelle belghe del-
l’aeroporto. Poi, ancora fuori, nel traffico di
Piazza Massoud, a soli 300 metri dalla zona do-
ve sono morti i commilitoni. Non abbiamo il
tempo di lanciare più che un’occhiata sfuggen-
te. I Lince prendono «Blair road», passano vici-
no ai viali dell’università, poi lungo il fiume, e
quindi imbocchiamo la strada per Kandahar,
cuore dei quartieri pashtun, oggi a rischio rapi-
mento per qualsiasi occidentale che vi si rechi
non protetto.
quando si tratta di coordinarsi con gli altri con-
tingenti di Isaf. «Il mio inglese zoppica. Lui tra-
duce in un lampo» dice sorridente. Si distende
anche il caporal maggiore Eligio Teodori, 24 an-
ni, il cui accento delle borgate romane invece
non lo aiuta ai posti di blocco britannici. Il più
teso resta però il «rallista» Enrico Miani, come
qui chiamano in gergo il mitragliere. Di Nova-
ra, 25 anni, è l’uomo più esposto. Dallo spazio
angusto della cabina, con le fasce di munizioni
dell’arma pesante che dondolano dal soffitto, i
giubbotti antiproiettile e gli elmetti, lui emer-
154202700.047.png 154202700.048.png 154202700.049.png 154202700.050.png 154202700.051.png 154202700.052.png 154202700.053.png 154202700.054.png 154202700.055.png 154202700.056.png 154202700.057.png 154202700.058.png 154202700.059.png 154202700.060.png 154202700.061.png 154202700.062.png 154202700.063.png 154202700.064.png 154202700.065.png 154202700.066.png 154202700.067.png 154202700.069.png 154202700.070.png 154202700.071.png 154202700.072.png 154202700.073.png 154202700.074.png 154202700.075.png 154202700.076.png 154202700.077.png 154202700.078.png 154202700.080.png 154202700.081.png 154202700.082.png 154202700.083.png 154202700.084.png 154202700.085.png 154202700.086.png 154202700.087.png 154202700.088.png 154202700.089.png 154202700.091.png 154202700.092.png 154202700.093.png 154202700.094.png 154202700.095.png
Corriere della Sera Sabato 19 Settembre 2009
Primo Piano
3
#
60%
l’incremento di attacchi talebani
dall’ottobre 2008 alla primavera 2009
1.031
I civili afghani uccisi in Afghanistan
nella prima metà del 2009
40%
la fetta di budget dei gruppi umanitari in
Afghanistan che va in spese di sicurezza
L’autobomba esplode
poi un gruppo armato
apre il fuoco sui soldati
«Erano nascosti al lato della strada»
DAL NOSTRO INVIATO
no riparati dietro il loro
mezzo danneggiato e han-
no risposto al fuoco. A quel
punto gli aggressori si so-
no dileguati» dicono al Cor-
riere alte fonti Isaf-Nato
coinvolte nelle fasi prelimi-
nari dell’inchiesta.
In gergo un’operazione
del genere viene definita:
«Attentato complesso». Un
fatto abbastanza raro a Ka-
bul. Si deve tornare all’at-
tentato contro l’hotel Sere-
na, nel gennaio 2008, per
tracciare uno scenario simi-
le, seguito da diversi «attac-
chi complessi» contro le
forze di sicurezza nazionali
afghane.
È invece assodato che di-
namiche del genere siano
abbastanza comuni nelle
zone rurali e soprattutto
nel Sud-est del Paese. Se
ciò fosse confermato, signi-
ficherebbe dunque che gli
italiani erano davvero cadu-
ti in un’imboscata ben pia-
nificata. Prima l’auto ka-
mikaze, poi le mitragliate
per finire i superstiti. Saran-
no ora anche i gruppi inve-
stigativi dei Ros a seguire
queste piste. Gli stessi tale-
bani nel loro comunicato
di rivendicazione avevano
segnalato gli spari da parte
degli italiani. E molti dei te-
stimoni tra i civili, incontra-
ti ieri mattina sul luogo del-
l’attentato, parlano con in-
sistenza di «una intensa
sparatoria», che avrebbe
addirittura impedito per al-
cuni minuti di prestare soc-
corso ai feriti tra la popola-
zione. Della decina di perso-
ne intervistate dal Corrie-
re , nessuna ha parlato di
colpi a fuoco da parte dei ta-
lebani.
KABUL — Subito dopo
l’esplosione contro gli ita-
liani giovedì mattina sem-
bra certo vi sia stata una
sparatoria durata circa tre
minuti. Ad aprire il fuoco
sarebbe stato un gruppo di
militanti filotalebani arma-
ti di mitragliatori e apposta-
ti tra alcune montagnole di
terra e detriti un centinaio
di metri sulla sinistra della
carreggiata rispetto alla di-
rezione di marcia dei Lin-
ce.
Quanti aggressori? «For-
se quattro o cinque. Il nu-
mero non è chiaro. Hanno
aperto il fuoco contro i
quattro sopravvissuti del
secondo blindato. Questi
erano confusi, in stato
di choc. Si deve pensa-
re che, dato l’impatto
violentissimo dello
scoppio — è quasi
certo fosse una vettu-
ra guidata da un ka-
mikaze — alcuni di
loro ancora non ave-
vano realizzato che il
primo Lince era stato
colpito. Pensavano di
essere stati loro gli ob-
biettivi principali del-
l’attentato. Però sono riu-
sciti a reagire abbastanza
in fretta. Anche aiutati dal
fatto che intanto era so-
praggiunta una pattuglia
inglese, seguita subito do-
po da una norvegese. Han-
no così compreso da dove
provenivano gli spari, si so-
La dinamica
Kabul A sinistra, il
sergente Giuseppe
Pergola, 30 anni, in
pattuglia a Kabul.
Sopra, il cratere scavato
dall’autobomba che ha
ucciso 6 parà italiani (Ap)
La manovra Un kamikaze
alla guida di una Toyota carica
di esplosivo si è frapposto l’altro
ieri tra due blindati Lince che
stavano scortando un convoglio
italiano lungo la strada che
dall’aeroporto porta al quartier
generale delle forze Isaf
Le vittime Il terrorista ha fatto
deflagrare l’autobomba:
nell’esplosione sono morti
6 dei 10 paracadutisti della
Folgore che si trovavano
a bordo dei Lince e 15 afghani.
Gli altri quattro militari
sono rimasti feriti
La sparatoria Dalle prime
testimonianze è emerso
che subito dopo l’esplosione
sono entrati in azione
dei militanti filotalebani armati
di mitragliatori, che si erano
appostati a un centinaio
di metri dalla carreggiata.
Hanno sparato contro i quattro
parà sopravvissuti. Questi
hanno prontamente risposto
al fuoco e gli attentatori sono
poi fuggiti
Almeno 5 volte Miani fa fuoco con i segnali
traccianti per allontanare le vetture civili. Un
botto improvviso e odore di cordite. Ma nel
mercato di frutta e verdura restiamo imbotti-
gliati nel traffico. E non possiamo farci assolu-
tamente nulla. Per una ventina di minuti si
procede a passo d’uomo. «Un terrorista qui
avrebbe gioco facile. Eppure non abbiamo al-
ternative, se vogliamo contribuire alla pacifica-
zione del Paese dobbiamo stare tra la gente e
dimostrare che esiste un’autorità in grado di
imporre la legge» osserva il sergente. C’è un
sobbalzo nell’abitacolo, quando al nostro pas-
saggio scoppia la ruota di un camion. Probabil-
mente una settimana fa non ci avrebbero bada-
to per nulla: adesso guardano frenetici l’altro
veicolo 100 metri dietro.
Gli autisti accelerano e frenano bruscamen-
te, in continuazione. Ogni auto vuota sul lato
della strada è sospetta, così come lo sono quel-
le con un solo occupante. Alle 17 e trenta Mia-
ni estrae dalla giberna una lampada laser che
lancia un intenso fascio di luce verde. Lo usa
per segnalare l’alt al traffico e pare efficacissi-
mo. Sembra quasi un gioco, il filo verde si ri-
flette oscillante sui parabrezza delle auto, fila e
ci precede agli incroci privi di illuminazione
pubblica. È il tramonto, il cielo si tinge di ros-
so. Una a una le creste e le cime delle monta-
gne attorno a Kabul svaniscono nel cielo color
pece. Adesso corriamo per la campagna e l’al-
larme cambia: si temono le cariche esplosive
ai bordi della strada e gli spari dalle case.
«Non sarebbe la prima volta. Tanti convogli
Isaf sono attaccati a suon di bazooka. La rego-
la qui è che la mattina ci sono i kamikaze e la
sera le sparatorie», dicono nell’abitacolo. Pri-
ma delle 18 è ormai buio profondo. Accenna a
piovere, quindi smette.
Ci raggiungono gli altri due automezzi di
«Skorpius 42». Le strade vuote, gli abitanti si
chiudono in casa per lo Iftar, la cena che rom-
pe quotidianamente il digiuno del mese di Ra-
madan. Ormai il convoglio è formato da quat-
tro mezzi. Scorriamo rapidi, oltre 75 all’ora,
salvo ancora frenate brusche se qualcuno non
si scosta. Quasi ci scontriamo frontalmente
con tre camionette della polizia afghana, che
non si spostano di un centimetro. Siamo allo-
ra noi a dare strada. Nessuno sorride. Dal fine-
strino vediamo i visi chiusi, ostili della popola-
zione. Solo un paio di bambini agitano le brac-
cia per salutare. Poco prima delle 19 arriva l’ul-
timo allarme: «Attenzione: attentatore suicida
nel centro». Per fortuna non era vero.
Lorenzo Cremonesi
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Dopo l’agguato
L’elmetto di uno dei parà della Folgore uccisi a Kabul. Le salme
di Antonio Fortunato, Roberto Valente, Matteo Mureddu,
Davide Ricchiuto, Massimiliano Randino e Giandomenico
Pistonami rientreranno in Italia domani (Emmevi)
L. Cr.
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Fondamentalisti
Quell’oltraggio
sul sito pro Al Qaeda
«Sono all’inferno»
«Ecco la foto dei soldati italiani che ieri
hanno prenotato un posto all’inferno».
È la provocazione apparsa ieri su un sito
Internet vicino all’organizzazione
terroristica Al Qaeda, in riferimento
ai sei paracadutisti italiani della Folgore
uccisi nell’attacco kamikaze di giovedì.
Il messaggio è stato pubblicato
da un utente del sito che si fa chiamare
Okbah Ben Ali: le immagini dei militari
uccisi nella capitale afghana Kabul sono
state ricavate da un sito di informazione
italiano. Sulla stessa linea una decina
di altri messaggi pubblicati sul sito
fondamentalista: «Allah è grande»,
«Rimarranno per sempre all’inferno»,
«Allah distruggi le loro case e proteggi
i talebani».
L’unico intervento critico con il
linguaggio usato dai simpatizzanti
di Al Qaeda era firmato da un membro
del forum che si fa chiamare Mutaz
Damghash e che ha scritto: «Cari fratelli
ho una domanda per voi. È lecito dal punto
di vista della sharia islamica usare questo
tipo di linguaggio?».
Ieri altri forum jihadisti, come quello
degli «Ansar», ponevano invece l’accento
sul dibattito che si è aperto in Italia
su un eventuale ritiro delle truppe
dall’Afghanistan. Erano almeno tre
gli articoli in lingua araba pubblicati
su questo argomento.
L’inchiesta La ricostruzione e le prime testimonianze
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Sabato 19 Settembre 2009 Corriere della Sera
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Corriere della Sera Sabato 19 Settembre 2009
Primo Piano
5
La strage di Kabul Il Colle
❜❜
Questa non è una guerra americana, come grossolanamente si sostiene
Neppure dall’opposizione trapela alcuna divisione su questa linea Giorgio Napolitano
Napolitano: «Missione condivisa, avanti così»
Il capo dello Stato nega ripensamenti: l’Italia deve mantenere fede agli impegni internazionali
DAL NOSTRO INVIATO
Scheda
nomico) e premettendo che
«questa non è una guerra ameri-
cana, come grossolanamente si
sostiene». È un’azione congiun-
ta e comunque, sì, difficile. Per
la quale, però, «il contributo ita-
liano è sempre stato concepito
in maniera equilibrata nelle sue
varie componenti». Infatti, rac-
conta, «ne abbiamo discusso pu-
re l’ultima volta in cui si è riuni-
to il Consiglio supremo di dife-
sa, che presiedo». Una seduta
che ha «riconfermato pienamen-
te e in modo molto determinato
il nostro impegno laggiù». Tan-
to che, prosegue, «ancora una
volta ho potuto constatare l’ac-
cordo tra i membri del governo
che ne fanno parte — dal pre-
mier al ministro della Difesa al
capo di Stato maggiore, al sotto-
scritto—sulla necessità di carat-
terizzare il nostro contributo in
Afghanistan sia sul piano milita-
re sia su quello civile». Di più.
Racconta di aver letto un artico-
lo di un esponente del Pd che se-
gue la politica estera, Fassino,
«dal quale non trapela alcuna di-
visione su questa linea neppure
da parte dell’opposizione».
Traduciamo l’avvertimento.
In un caso del genere non si può
far leva né sull’emotività del-
l’opinione pubblica, pur solleci-
tata adesso da un sacrosanto do-
lore. Né giocare con furberie po-
litiche, promettendo magari
qualche formula immaginifica
di disimpegno (forse la «transi-
tion strategy» di cui parla Silvio
Berlusconi?).
Stiamo invece alla parola da-
ta. Tutti. Specie se a darla sono
stati il governo (come Consiglio
dei ministri, oltre che per voce
dei suoi membri nel Consiglio di
difesa) e le Camere, quando han-
no votato la missione incassan-
do il sostegno anche del centrosi-
nistra. A questi punti fermi sem-
bra riferirsi Napolitano, mentre
incita alla coerenza. Ementre in-
vita i giornalisti un po’ troppo
curiosi a girare al premier ogni
domanda sulle divisioni (ad
L’addio alle vittime
TOKYO — Com’era accaduto
nel 2003 in Iraq, dopo Nassiriya,
l’Italia di oggi si accorge d’essere
considerata un Paese nemico e
belligerante anche da una certa
(e larga) parte di Afghanistan,
dove sembra inutile che la sua
presenza abbia il sigillo della co-
lomba. Così, gli ultimi sei morti
di Kabul riaprono, come allora,
il dibattito sui dividendi della pa-
ce e sui costi della guerra. Una
rincorsa di polemiche che ruota-
no sui soliti interrogativi: tenia-
mo ancora laggiù i nostri solda-
ti, e a quali condizioni? O è me-
glio farli tornare a casa al più pre-
sto? A 24 ore dalla strage, il presi-
Gli uomini
Sono circa
2.800
i militari
italiani
che
partecipano
alla missione
Isaf in
Afghanistan
L’area
Il grosso si
trova nella
Domani il rientro
dei parà uccisi
Lunedì i funerali
e lutto nazionale
ROMA — Domani alle 9.30 un C130
dell’Aeronautica atterrerà sulla pista di Ciampino
con a bordo le salme dei sei paracadutisti della
Folgore uccisi a Kabul. Le bare avvolte nella
bandiera tricolore di Davide Ricchiuto, Matteo
Mureddu, Antonio Fortunato, Roberto Valente,
Massimiliano Randino, Giandomenico Pistonami,
saranno accolte dalle massime autorità nazionali:
il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano
e i presidenti di Camera e Senato, Gianfranco Fini
e Renato Schifani. La Procura di Roma, che ha
aperto un fascicolo sulla strage e ha inviato i
carabinieri del Ros a Kabul, ha disposto che subito
dopo l’arrivo dei corpi siano effettuate le autopsie.
Poi nel pomeriggio verrà aperta la camera ardente
all’ospedale militare del Celio. Ma già ieri nel
sacrario allestito nel palazzo dello stato maggiore
dell’Esercito molte persone si sono recate a
rendere omaggio alle vittime dell’attentato
suicida. Lunedì 21 sarà una giornata di lutto
nazionale in occasione dei
funerali di Stato. Saranno
celebrati alle 11 nella
basilica di San Paolo fuori
le Mura, la stessa dove sei
anni fa vennero officiate le
esequie per i militari
caduti a Nassiriya. La
cerimonia, alla quale
assisteranno le più alte
cariche del mondo
politico, a cominciare dal
presidente del Consiglio
Silvio Berlusconi, sarà
celebrata da monsignor
Vincenzo Pelvi, ordinario
militare. Ci saranno i
familiari dei sei caduti. La
famiglia del paracadutista
sardo Matteo Mureddu
arriverà già oggi a Roma
per essere presente poi
domattina all’arrivo
dell’aereo da Kabul.
Monsignor Pelvi leggerà
durante la messa un
messaggio del Papa. Il
dolore di Benedetto XVI
per la perdita dei sei
militari in Afghanistan
verrà espresso anche
domani, durante l’Angelus.
Sugli edifici pubblici
domani e lunedì le
bandiere sventoleranno a
mezz’asta. E lunedì nelle
scuole e negli uffici
pubblici a mezzogiorno
sarà osservato un minuto
di silenzio. Sempre lunedì
il Partito democratico, «in
segno di vicinanza alle
famiglie delle vittime», ha
deciso di sospendere tutte
le iniziative politiche e
l’attività congressuale. Manifestazioni di cordoglio
in varie città. A Bolzano verrà celebrata lunedì una
messa alla quale assisteranno le truppe alpine. A
Siena lutto cittadino, in coincidenza coi funerali
sarà suonato a lutto il campanone in cima alla
Torre del Mangia. Anche i radicali onoreranno le
sei vittime oggi nel corso della loro
manifestazione alla vigilia dell’anniversario della
breccia di Porta Pia. I capi militari hanno deciso di
promuovere i sei parà deceduti al grado superiore,
così il tenente Antonio Fortunato sarà ricordato
col grado di capitano e anche i nomi dei cinque
sottufficiali saranno associati a un grado più alto.
Sono stabili le condizioni di salute dei quattro
militari rimasti feriti. Ricoverati nell’ospedale
militare da campo francese, saranno trasferiti nei
prossimi giorni in Italia: alcuni hanno riportato
traumi acustici che ne sconsigliano l’immediato
trasporto a bordo di aerei militari.
dente della Repubblica si prende
la responsabilità di sciogliere il
nodo, per il ruolo che gli compe-
te. Dice: «Non ci sono intenzioni
di annullamento o ripensamen-
to. La missione è condivisa».
Dunque, si resta. Al di là dello
choc nazionale e di ciò che indi-
cano i sondaggi, non c’è «nulla
da rivedere». Bisogna «tener fe-
de all’impegno preso, come im-
pegno della comunità internazio-
nale su mandato delle Nazioni
Unite con compiti di lotta al ter-
rorismo a fini di pacificazione e
di stabilizzazione di quell’area
così critica». Una sottolineatura,
quella dell’egida Onu, che Gior-
gio Napolitano rafforza conge-
dando i cronisti in ambasciata
nel penultimo giorno del viag-
gio in Giappone (un grande suc-
cesso politico-diplomatico-eco-
Regione
Ovest,
con sede
a Herat,
mentre circa
500 soldati si
trovano
nell’area
di Kabul
Rinforzi
Per il periodo
elettorale
(le elezioni
si sono svolte
il 20 agosto)
sono stati
autorizzati
dal
Parlamento
rinforzi per
ulteriori
500 unità
L’omaggio
Mazzi di fiori
nel cortile
della
caserma
«Bandini»
di Siena,
sede
del 186˚
reggimento
della Folgore
(Ansa)
esempio quella tra La Russa e
Bossi) che affiorano nella mag-
gioranza. Spiega: «Non ho titolo
per prevedere, auspicare, consi-
derare necessaria una discussio-
ne del Parlamento. Non spetta a
me dirlo, ma al governo e al Par-
lamento stesso. Ritengo sia com-
prensibile un dibattito su come
rimotivare la missione Onu...
una discussione più ampia che
probabilmente, innanzitutto da
parte americana, si ritiene di por-
tare avanti», e lo conferma il fat-
to che «il nuovo comandante
Usa ha cominciato ad avanzare
ipotesi e a fare ragionamenti»,
in primo luogo a proposito di
rincalzi. Insomma: se proprio vo-
gliamo rimodulare il lavoro del
nostro contingente, facciamolo
assieme agli altri alleati sul cam-
po e secondo la tradizione italia-
na di interventi nelle zone di cri-
si, che «affianca ai militari le
componenti civili» per la rico-
struzione. Un tema, questo, che
il presidente ha toccato anche in
un colloquio con il neopremier
giapponese Yukio Hatoyama, pri-
mo statista straniero a incontrar-
lo dopo l’insediamento di pochi
giorni fa. E primo interlocutore
che ha potuto raccogliere il suo
impegno «per la ricostruzione
economica» dell’Afghanistan.
Marzio Breda
© RIPRODUZIONE RISERVATA
L’iniziativa
Il Corriere della Sera ha
aperto una sottoscrizione
a favore delle famiglie
dei militari caduti in
Afghanistan
Le donazioni
1) attraverso CartaSi,
Visa, MasterCard,
American Express
telefonando al numero
verde 800.317.800
2) con bonifico su c/c
Intesa Sanpaolo a «Aiuto
subito-vittime di Kabul».
Iban: IT11 U030 6905
0611 0000 0000 204
3) Sms gratuito con
Wind al numero 46299.
Con ogni Sms si invia un
euro (fino al 2 ottobre, il
servizio è riservato ai
clienti Wind)
Il generale Franco Angioni
«Sono un parà a vita, mai il ritiro
Ora conquistiamo gli afghani»
terroristi ci sono sfuggiti e abbiamo
anche perso l’appoggio del popolo af-
ghano».
L’attacco suicida che ha ucciso a
Kabul sei paracadutisti lei se lo
aspettava?
«Bisogna mettere in conto questo
tipo di reazione del terrorismo. Lo ab-
biamo sperimentato durante la mis-
sione in Libano e lo abbiamo subito
in Somalia. C’era da aspettarselo. I ta-
lebani si preparavano a spargere terro-
re perché non accettavano le elezioni
e i risultati del voto. Naturalmente
non tutto si può prevenire. Non si
possono controllare tutte le automo-
bili e vedere se trasportano un carico
di esplosivo con un attentatore suici-
da alla guida».
Quindi secondo lei anche con
mezzi più sicuri è impossibile assi-
curare l’incolumità?
«Siamo in guerra, per questo il ri-
schio non può mai essere ridotto a ze-
ro. Ora però guai a mollare. I nostri
militari ne sono consapevoli. Sanno
bene che non possono andarsene. Il
ritiro sarebbe un modo solenne di
consegnare al terrorismo il territorio
afghano».
Sarebbe il caos, una nuova Soma-
lia?
«Il terrorismo internazionale è una
realtà. Per coltivare i suoi piani ha bi-
sogno di un pezzo di territorio dove
può operare senza problemi. E oggi
l’Afghanistan è il cuore pulsante del
terrorismo internazionale, alimenta-
to dal Pakistan. Se gli lasciamo l’inte-
ro Paese sarà un disastro per tutti».
Marco Nese
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Caduti
Le foto dei sei
parà uccisi da
un kamikaze
a Kabul
al sacrario
dell’esercito
di Roma,
dove ieri
si sono recati
rappresentanti
delle istituzioni
e cittadini
(Ansa)
ROMA — Generale Franco Angio-
ni, lei è un ex parà.
«No, io sono un parà. Noi rimania-
mo parà a vita».
Bene, allora lei che è un parà co-
me valuta la situazione dei paraca-
dutisti della Folgore in Afghani-
stan? Le loro regole d’ingaggio sono
adeguate?
«Le regole d’ingaggio sono delle va-
riabili che si adeguano alle situazioni
mutevoli. Noi italiani per cultura mili-
tare e per natura umana siamo abitua-
ti a comportarci con un certo rispetto
verso gli altri e anche nell’autodifesa
non ricorriamo mai a sistemi arrogan-
ti».
Però in Afghanistan bisogna fron-
teggiare rischi molto alti.
«Il problema è che noi siamo prepa-
rati per combattere una guerra tradi-
zionale, ma ancora non abbiamo gli
strumenti adeguati e la mentalità per
una guerra asimmetrica. Le mappe
sul campo non hanno più valore, so-
no superate, il nemico non si sa do-
v’è. Pochi terroristi riescono a tenere
in scacco grandi eserciti».
Quali sono le condizioni necessa-
rie per vincere questa guerra?
«Sono tre i fattori importanti, la
motivazione, la preparazione sul cam-
po e le risorse. Le prime due sono più
che soddisfacenti, i nostri militari so-
no ben motivati e possono vantare
una preparazione fantastica, le risor-
se non sono sempre adeguate ai biso-
gni».
Vuole dire che mancano mezzi?
«I mezzi possiamo anche renderli
più solidi, più capaci di resistere agli
attacchi armati, ma non potremo mai
trasformarli in macchine invulnerabi-
li. Dobbiamo metterci in testa una co-
sa: i terroristi sono in vantaggio ri-
spetto a chi combatte allo scoperto.
La guerriglia dispone di mezzi, di in-
formazioni e può agire nell’ombra.
Una situazione ideale. Per battere i ter-
roristi abbiamo una sola arma: con-
quistare gli afghani. Nel 2001 ci pote-
vamo riuscire. Avevamo il compito di
catturare i capi di Al Qaeda. Invece ab-
biamo bombardato i villaggi. Così i
M. Ne.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Zgłoś jeśli naruszono regulamin