Apriamo dunque lo spettacolo il dì 26 dicembre con La locandiera.doc

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«Apriamo dunque lo spettacolo il dì 26 dicembre con La locandiera

«Apriamo dunque lo spettacolo il dì 26 dicembre con La locandiera. Questa vien da Locanda, che in italiano significa la stessa cosa che hötel garni in francese. Non vi è termine proprio in lingua francese per indicar l’uomo o la donna che tien locanda. Se si volesse tradurre questa commedia in francese, converrebbe cercar il titolo nel carattere, e questo sarebbe senza dubbio la femme adroite. Mirandolina tiene una locanda a Firenze, e colle sue grazie e col suo spirito guadagna, ancor senza volerlo, il cuore di tutti quelli che alloggiano da lei.»

(C. Goldoni, Memorie).

a locandiera viene messa in scena al teatro Sant’Angelo di Venezia il 26 dicembre 1752, al termine dei cinque anni trascorsi da Goldoni come poeta di corte nella compagnia di Guglielmo Medebac, la cui moglie e prim’attrice, era stata ispiratrice ed interprete fino ad allora di molte sue commedie. Il deteriorarsi dei rapporti con Medebac e l’ingresso in compagnia, nel 1751, della «servetta» Marliani, fanno sì che Goldoni, abbandonata la sua musa: «attrice eccellente…ma donna facile ai vapori: era spesso malata, spesso credeva di esserlo, e a volte lo era su ordinazione.», rivolga le sue attenzioni alla giovane Marliani, donna nuova e vivace, e le ricami addosso il personaggio di Mirandolina.

Ne La locandiera, Goldoni, sembra compiere appieno quell’opera di riforma tecnica che consisteva nella sostituzione di commedie scritte a quelle improvvisate della Commedia dell’Arte: «[…] la commedia goldoniana era ora realistica […] trasposizione scenica del mondo reale[…] » G.Petronio. Ma, oltre la «tecnica», ne La locandiera e nella sua protagonista, si visualizza, attraverso l’artificio scenico, quel mutamento, già ampiamente in atto nella vita reale, che vede la borghesia conquistare maggior spazio a danno della nobiltà veneziana (e non solo), dapprima quasi pacificamente coesistendo, per poi acquisire un primato che andrà via via consolidandosi negli anni successivi. Così ancora il Petronio: «[…] un teatro che non poteva nascere che da quell’adesione sentimentale e morale alla borghesia veneziana, da quella concezione della commedia come genre sérieux, da quel ripudio della virtù vietamente retorica».

D’altra parte, la storia di una donna che rifiuta Conti, Marchesi e Cavalieri, per impalmare Fabrizio, umile borghese quanto lei, al fine – neanche troppo dissimulato – di governare meglio la locanda, non può che essere una tipica allusione alla novità dei rapporti tra borghesia e nobiltà, in quel particolare momento storico (v. L. Lunari).

Quanto al «realismo» a cui allude Petronio e di cui la critica ha lungamente discusso, significativa e dissonante è invece la posizione di S. D’Amico, che descrive le ambientazioni e le atmosfere goldoniane, senza eccezioni, come: «Un mondo tutto leggiadramente spostato di tono; in uno stile che ha del bizzarro e, a momenti, del magico».

Probabilmente, entrambe le posizioni possono coesistere, trovandosi, l’opera di Goldoni, in un periodo di transizione storica e letteraria: in quella «terra di nessuno» in cui Scaparro, proprio nella sua Locandiera portata in scena nel 2000, pone il secolo diciottesimo. Goldoni , in realtà, aderisce completamente al costume del proprio tempo, eppure, è tra i pochi che sanno renderlo sensibile ad ogni istanza innovativa.

Per ciò che riguarda lo stile, importantissima è la partizione che Momigliano fa dell’opera di Goldoni tra «commedie di carattere» e «commedie d’ambiente», sottolineando in seguito che: «La Locandiera e i Rusteghi si reggono invece, dal principio alla fine: e sono, in misura diversa, insieme commedie di carattere e d’ambiente. La locandiera è una delle commedie più armoniche del Goldoni, mirabile per la rispondenza fra l’ambiente e l’azione, fra questi e i personaggi».

Certo i personaggi di Goldoni non hanno l’universalità degli archetipi tracciati da Molière, né il pathos dei protagonisti di Shakespeare o di Ibsen , ma la nozione del «tipico», come sostiene Lunari, può in certi tratti emblematici, sostanziarsi anche in loro. Riferendosi poi a La locandiera, Lunari sottolinea: «Di avere scritto un capolavoro non mostra d’essersi accorto, o comunque non ne mena vanto; la sola cosa di cui si gloria è l’essere riuscito a condurre il Cavaliere di Ripafratta ad innamorarsi di Mirandolina nello spazio di due atti e di ventiquattro ore, senza tradire la credibilità psicologica del personaggio e la scorrevole naturalezza degli eventi».

Altro aspetto su cui i critici – soprattutto nell’ottocento e agli inizi del novecento – hanno molto discusso, è la cosiddetta «moralità» di cui Goldoni avrebbe rivestito la sua locandiera: «Fra tutte le commedie da me sinora composte, starei per dire questa la più morale, la più utile, la più istruttiva. […] venutomi in mente, che sogliono coteste lusinghiere donne, quando vedono ne’ loro lacci gli amanti, aspramente trattarli, ho voluto dar un esempio di questa barbara crudeltà….» C. Goldoni, L’autore a chi legge.

In realtà Goldoni sembra, con questa stessa osservazione, strizzare l’occhio al suo pubblico, dichiarandosi in seguito, egli stesso rassegnata vittima di quel tipo di donna che tanto vitupera. L’immagine di Mirandolina che la commedia ci rimanda, non è certo quella di una donna crudele o subdola, anzi, è implicito nell’esprimersi della protagonista, un’adesione dell’autore all’intelligenza, al buon senso e al fascino che la caratterizzano: «Amabile ironia è quella di Goldoni, non satira [...] Nelle sue avvertenze su La locandiera ha la faccia fresca di asserire che ha scritto la commedia per “rendere odioso il carattere di certe incantatrici Sirene”: giudichi il pubblico….se Mirandolina sia proprio un personaggio “odioso”» S. D’Amico.

Mirandolina, in realtà è un’ottima locandiera, tesa soprattutto a far funzionare alla perfezione il suo albergo, e con grande senso pratico, mescolato al sapiente uso dell’ingegno – più che delle armi di seduzione – finisce per chiedere a Fabrizio, onesto innamorato senza illusioni, di sposarla, facendosi beffe di tutti gli altri spasimanti. Sono gli altri personaggi invece, a risultare irritanti e condannabili: il Conte parvenu e spendaccione; il Marchese spocchioso visionario d’una antica ricchezza e d’una presente, inutile nobiltà e il Cavaliere misogino, sprezzante, ma più di ogni altro raggirabile e ingenuo.

E Mirandolina, su tutti, tesse la sua tela di donna esperta e pratica, che non si fa incantare da nulla, che intuisce ogni menzogna (è l’unica a riconoscere il gioco delle due attrici sedicenti dame) e che, per suo unico piacere si diverte a conquistare il cuore di uomini presuntuosi, che poi inevitabilmente rifiuterà.

«Quanti arrivano a questa locanda, tutti di me s’innamorano, tutti mi fanno i cascamorti; e tanti e tanti mi esibiscono di sposarmi a dirittura. E questo signor cavaliere, rustico come un orso, mi tratta si bruscamente? Questi è il primo forestiere capitato alla mia locanda, il quale non abbia avuto il piacere di trattare con me. Non dico che tutti in un salto s’abbiano a innamorare: ma disprezzarmi così? È una cosa che mi muove la bile terribilmente….Con questi appunto mi ci metto di picca. Quei che mi corrono dietro, presto presto mi annoiano. La nobiltà non fa per me. La ricchezza la stimo e non la stimo. Tutto il mio piacere consiste nel vedermi servita, vagheggiata, adorata….a maritarmi non ci penso nemmeno; non ho bisogno di nessuno; vivo onestamente e godo della mia libertà. Tratto con tutti, ma non m’innamoro mai di nessuno. Voglio burlarmi di tante caricature di amanti spasimanti; e voglio usar tutta l’arte per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura.»

L’immagine che Mirandolina mostra di sé, ammiccando con il pubblico e con la «storia», zittisce ogni commento critico sul suo personaggio: la locandiera, più che onesta o crudele, più che infida o virtuosa, è un’efficiente donna d’affari, che pone la locanda al centro della sua vita e che al suo buon andamento, subordinerà sempre e oltre qualsiasi apparenza, ogni motteggio ed ogni lusinga. In questo forse, è riconoscibile uno dei primi veri ritratti di donna «moderna» che il teatro ci ha offerto.

BIBLIOGRAFIA

Carlo Goldoni – Memorie-Torino 1967
Commedie, a cura di G. Petronio- Milano 1954
G.Petronio- L’attività letteraria in Italia- Palermo 1968
A. Momigliano – Storia della letteratura italiana – Milano_Messina 1966
E. Vittorini- Nota introduttiva all’edizione delle commedie di C. G. – Torino 1966
S. D’Amico – Storia del teatro drammatico – Milano 1964
L. Lunari – Introduzione a La Locandiera di C. G. – Milano 1998
L. Lunari – Introduzione alla Trilogia della villeggiatura di C. G. – Milano 1982

A cura della Redazione Virtuale de «La Libreria di Dora»

 

Donne e società: il Settecento

L'educazione

Nel Settecento, sia in Italia, che nel resto d'Europa, i giovani nobili non vedevano mai i propri genitori, poiché, appena pronti, all'età di circa sei-sette anni, venivano affidati ad un precettore, che si occupava della loro istruzione. Mentre i genitori erano impegnati in ricevimenti e viaggi, i ragazzi crescevano nella scarsa considerazione generale.

I ragazzi delle classi medie e borghesi, ricevevano spesso un'educazione più solida, poiché, in assenza di un precettore privato, venivano mandati a studiare dai gesuiti o dagli scolopi. L'educazione si basava sulla pietà e sulla disciplina ferrea, con frequente ricorso alle punizioni corporali.
In questo secolo, avvenne anche un'importante rinnovamento nei programmi educativi, promosso dagli scolopi, che estesero il raggio degli insegnamenti dal greco e latino, ai problemi concreti della vita economica ed agricola.
Questo allargamento non toccò però le ragazze, che venivano prematuramente rinchiuse nei conventi dove, nella migliore delle ipotesi, veniva loro insegnata la lettura, la scrittura e un po' di grammatica, oltre alle arti del disegno, della musica e del cucito. Era ancora largamente ritenuto che le cattive letture deviassero le brave ragazze, e quindi, molte volte, le giovani donne erano tenute completamente all'oscuro da qualsiasi tipo di istruzione letteraria.

Il Settecento italiano ha però alcune illustri testimonianze di donne molto colte, di solito provenienti da famiglie altolocate, che spiccano nel panorama culturale maschile. Abbiamo Maria Gaetana Agnesi [65], bambina prodigio e matematica illustre, o Isabella Teotochi Albrizzi, con il suo salotto frequentato dai più grandi letterati veneziani dell'epoca, oppure la contessa milanese Clelia Borromeo, che, si diceva, conoscesse tutte le scienze e tutte le lingue d'Europa.

In tutto questo fervore intellettuale, il popolo rimase estraneo ad ogni tipo di istruzione, ancora per lunghissimo tempo, tanto che nel XIX secolo, in Italia, circa l'80% degli abitanti erano analfabeti.

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andando per punti:
in generale:
-il matrimonio era l'occasione migliore che avevano
-dovevano preservare la loro virtù
-erano escluse dalle libere professioni
-erano escluse dalla politica e ovviamente dal voto
le donne delle classi medio-alte:
-studiavano musica,pittura,ligue straniere
-erano esiliate se tradivano il marito
-dovevano nascondersi se avevano un fisico robusto
le donne delle classi bassi:
-erano emarginate,spesso avevano una vita brutale
-cresce la figura della prostituta
-lavoravano le terre di famigia
-badavano alle mucche o ai maiali
-aiutavano qualche piccolo commercio locale

 

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